Reggio Calabria non ha bisogno di 'maestri' che arrivano da fuori, ma di alleati
L'arroganza travestita da aiuto non ci serve
di Elisabetta Marcianò - 03 dicembre 2025 15:00
C’è un tizio ricorrente, una sorta di animale mitologico che attraversa le epoche e i luoghi: quello di chi arriva da fuori e, prima ancora di capire dove si trova, si sente investito della missione di spiegare agli altri come vivere, lavorare, organizzarsi. È un fenomeno antico, ma oggi più che mai fastidioso, perché mascherato da competenza, da modernità, da un certo progressismo di facciata che confonde la propria voce con la verità assoluta.
Arrivano con l’aria di chi “adesso sistemiamo tutto noi”, come se il mondo iniziasse nel momento in cui mettono piede in una realtà che non conoscono. Hanno manuali, parole d’ordine, schemi, soluzioni “universali”. Parlano molto, ascoltano poco. Osservano dall’alto, raramente dal fianco. E nel farlo ignorano ciò che dovrebbero considerare prima di tutto: la storia, la fatica, le cicatrici, la sapienza pratica di chi non se n’è mai andato.
Perché è facile criticare chi resta. È facile giudicare le scelte di chi ogni giorno tiene insieme le cose con quella miscela scomoda di tenacia, inventiva e ostinazione che non ha nulla di teorico. È facile correggere senza conoscere il peso di ciò che si sta correggendo.
Questa arroganza travestita da aiuto non ci serve. Non ci serve chi confonde il ruolo di alleato con quello di istruttore. Non ci servono professori improvvisati che scambiano la complessità per ignoranza, la resistenza per arretratezza, la concretezza per provincialismo. L’umiltà dovrebbe essere il primo requisito di chi desidera portare qualcosa: mettersi accanto, capire, costruire insieme.
E invece spesso ci ritroviamo a subire lezioni non richieste, mentre restiamo immobili, disgregati, incapaci di riconoscerci come una comunità capace, competente, forte della propria esperienza. È questa la parte più amara: la nostra inerzia. La mancata consapevolezza del valore che abbiamo, delle competenze reali che possediamo, di quanto potremmo fare se solo ci riconoscessimo e ci organizzassimo.
La verità è semplice: una comunità che non sa di essere tale lascia spazio a ogni voce che grida più forte, anche quando non ha nulla da dire.
Quello che ci serve, oggi più che mai, sono alleati autentici: persone che non arrivano con ricette preconfezionate, ma con domande. Che non ti dicono come dovresti fare, ma ti chiedono come si fa. Che non si mettono in cattedra, ma al tuo fianco. Che non ti giudicano incapace, ma riconoscono la dignità e la competenza racchiuse nell’esperienza quotidiana.
Il resto è rumore. E il rumore si combatte con la costruzione: di legami, di spazi condivisi, di fiducia. È ora di recuperare una voce collettiva capace non solo di difendersi, ma di proporre, guidare, innovare. Una community vera, fatta di persone che sanno fare e che sanno che non serve alzare il tono per essere ascoltate.
Dobbiamo ripartire da qui: non dalla reazione agli altri, ma dalla costruzione di noi stessi. Solo così potremo distinguere chi viene per dominare da chi viene davvero per dare una mano. E chi vuole dare una mano, prima di parlare, impari ad ascoltare.