Eventi, costume e società

SPAZIO BARBARO: EL MAR

Inseguendo il nostro direttore

di Nanni Barbaro - 15 giugno 2024 10:42

GUARDA CHE BELLA EL MAR

Doveva essere per forza successo che la bambina avesse sbirciato parecchie volte al giorno nel cellulare della madre. Poi sicuramente pure quello del padre, ma mentre la madre reagiva con rapide smorfie di dispetto, il padre invece si soffermava parecchio di più sulla stessa immagine e con fare furtivo andava casa casa fissando il cellulare bisbigliando commenti che andavano dai quasi casti ai quasi reato.

Fatto sta che un bel giorno la bambina si ritrovò a zampettare sul Corso Garibaldi, presa per la mano dalla madre e a un certo punto sbottò con una frase perentoria che la madre ci mise almeno venti secondi a decifrare: “Mamma, io vollo ettere come la tignòla che guaddate su fesbùk tu e papà. Vollo ettere bella e fina come lei da ghande”. In altre occasioni aveva usato, per la verità, la parola “glande”, ma chissà perché era stata severamente diffidata dal farlo e aveva ripiegato su “ghande”.

“In…in che senso?”, aveva balbettato la mamma?

“Vollo ettere bella e fina come la tignòla di fesbùk, quella coi grandi occhioni sculi e che è sempre attolniata da quadli”

“Aaaah, ho capito!” disse ridendo la mamma, sorvolando sull’evidenza che il significato vero di “fina” non era esattamente quello, ma era ancora troppo presto per spiegare che sarebbe andata la gi invece della erre e così, senza saperlo, la bambina dovette annoverare il secondo termine inadatto all’età, insieme al suddetto “glande”.

“Mi plometti che divento fina e bella come tignola che gualdate tu e papà e che gilelò il mondo come lei?”

E fu così che la signora apprese dalla innocente voce della bambina che pure il marito si intratteneva a lungo nella contemplazione della “tignola fina” e buon per lui che i borbottii non risultavano comprensibili alla bambina altrimenti il ritorno a casa, quel giorno, sarebbe risultato alquanto rumoroso.

Ad onor del vero, di rumoreggiamenti, anche telluricamente considerabili, ce n’erano stati e ancora ce n’erano parecchi in città perché la “tignola fina”, coi suoi selfie strepitosi e con le foto dei suoi viaggi, che facevano impallidire persino l’Alpitour, oltre ai rumoreggiamenti causava anche strane sindromi cliniche scientificamente definibili “hinvidia ephaticus” e “rosicamentus perniciosus cum traumi biliaris”. In parole povere, era una nutritissima categoria ambisesso che si rodeva il fegato per l’invidia e il rosicamento, con frequenti travasi di bile.

Conoscendo di pissona pissonalmente la tignola in questione e scrivendo frequentemente per lei su un periodico on line reggino (senza tirarla troppo per le lunghe, esattamente quello che state leggendo ora), dappoichè tra la tante cose belle e ingegnose che si era inventata ci sono pure queste bellissime pagine dense di bellissimi articoli scritti da bravissimi autori, una volta pronto il pezzo le chiedo quando inviarlo e li comincia lo psicodramma, che mi accomuna in un certo senso ai due protagonisti adulti di cui sopra, pur se assolutamente avulso dalle sindromi cliniche accennate, visto che nel momento in cui sono assolutamente convinto di starle spedendo il pezzo a casa sua, una foto me la ritrae a Dubai e curare una Mostra di autore sconosciuto e dieci minuti dopo, con lo stesso vestito e la stessa “finaggine” di prima, nel pieno centro di Bilbao uscita fresca fresca da una mostra dedicata a Picasso. Non passa mezz’ora che la vedo occhieggiare in primissimo piano su un riconoscibile sfondo di Arezzo e prima di cena la rivedo, con leziosa esposizione di decolletè da infarto, alla luce dei Sassi di Matera.

Per fortuna l’articolo arriva sulla sua casella di posta elettronica del suo cellulare, che si porta sempre appresso, e non fermoposta, come un tempo, altrimenti leggereste al massimo un articolo ogni eclisse lunare, perché tale dovrebbe essere la coincidenza tra l’articolo fermo ad attendere in posta e lei che si trova a passare da quelle parti e qualcuno, in cinese, le urli: “Tignola fina, c’è posta pel te”.

P.S: è un evidente affettuoso omaggio alla nostra Direttrice e la battuta “da quasi casto a quasi reato” l’ho rubata al mio Maestro Stefano Benni.

Ciao Elmar