Politica

La pecora nera d'Italia

Se non c'è lo dicono non ci crediamo, eppure non basta il mare ed il sole.

di Francesco Nicolò - 01 dicembre 2025 18:54

Anche per il 2025, Reggio Calabria si conferma all’ultimo posto in Italia tra tutte le province per qualità della vita.

Il dato non è una sorpresa e  va letto non come incidente statistico, ma come segnale inquietante di una città e di un territorio che stanno precipitando negli indicatori economici, sociali, infrastrutturali, nel benessere quotidiano. 

È' un dato che non piace a coloro che hanno già un frutteto da proteggere ed acqua per irrigarlo. La "performance" è peggiorata in quasi tutti gli ambiti: ricchezza e consumi, lavoro, ambiente e servizi, sicurezza, salute, istruzione, tempo libero. Negli ultimi anni, la condizione di famiglie, bambini, giovani e anziani è quella di una popolazione lasciata indietro. Nel 2025, per la fascia bambini la città si piazza attorno al 95° posto su 107. 

L' argomento "qualità della vita" diventa ogni anno un dibattito sociale: "Le statistiche le fanno senza sapere cos'è la qualità della vita". Eppure i dati sono facili da comprendere. Uno è un dato oggettivo: lavoro, reddito procapite, stabilità economica, servizi, pulizia, ordine pubblico. L'altro è sentimentale: le relazioni, la famiglia, il clima.

Ma ad un giovane  se chiedessimo oggi dove vorresti vivere, dove vorresti costruire la tua famiglia, la sua risposta sarebbe? Reggio Calabria? Nel precariato, nel mal pagato, nello scempio urbano?

C’è un dato che sfugge alle statistiche ufficiali sulla qualità della vita, ma che a Reggio Calabria è impossibile ignorare: il declino economico non è arrivato all’improvviso. È stato accompagnato, anzi favorito, da una progressiva perdita di ciò che per decenni aveva garantito un minimo di stabilità: il lavoro pubblico.

Quando sono venute meno migliaia di posizioni nelle Poste, nelle Ferrovie, negli enti statali e para-statali, il territorio ha semplicemente smesso di respirare.

In un’economia fragilissima, dove il settore privato non è mai riuscito a essere davvero un motore, togliere il poco che funzionava è stato come scollegare un paziente già in difficoltà dall’ossigeno.

A Reggio, ed è brutto dirlo, ma serve dirlo, l’imprenditore non è quasi mai un innovatore. Non è un costruttore di valore.

È, troppo spesso, uno che sgomita per sopravvivere in un ecosistema ostile, dove la concorrenza non si basa sulla qualità ma sui rapporti, sulla vicinanza ai centri di potere, su micro-rendite garantite da un sistema che premia la fedeltà e punisce il merito.

In un contesto così, chi dovrebbe fare impresa finisce per fare altro: non crea, cerca spazio. Non innova, cerca ossigeno. E il risultato è un deserto economico che si allarga anno dopo anno.

Nel frattempo, si è affermata una mentalità che ha fatto danni quanto le mancanze economiche: l’idea che il lavoro manuale sia una sconfittaÈ considerato una sconfitta economica, perché è spesso mal retribuito, instabile, privo di prospettive. Ma soprattutto una sconfitta sociale: perché qui, più che altrove, non avere una laurea viene vissuto come un fallimento.

Così i giovani partono, e non solo perché qui non c’è lavoro: partono perché qui non c’è dignità per molti tipi di lavoro.

Il tracollo economico non nasce solo dall’assenza del privato. Nasce soprattutto da un’amministrazione che da vent’anni procede per inerzia, incapace di programmare, incapace di attirare investimenti, incapace di valorizzare ciò che la natura ha regalato in abbondanza.

Perché a Reggio il dramma è questo:

La costa non è sfruttata.

La montagna non è sfruttata.

La città è brutalizzata.

Sembra incredibile, ma una delle città più belle del Mediterraneo vive come se fosse chiusa in una stanza senza finestre. Le ricchezze ci sono. Le potenzialità ci sono. Ciò che manca è una classe dirigente capace di trasformare queste potenzialità in economia reale.

Da anni le opere pubbliche sono state ridotte a un rituale elettorale: annuncio, rendering, slogan, taglio del nastro, abbandono.

Quasi nessun grande intervento ha generato occupazione stabile, filiera di imprese, valore economico.

Sono diventate scenografie pre-elettorali, prive di ricadute concrete. Simboli di un’idea perversa di città: la città come palcoscenico, non come comunità.

Un territorio che non pianifica è un territorio che rinuncia al futuro.

Per capire il declino attuale di Reggio Calabria bisogna avere il coraggio di guardare indietro, a quel decennio che più di tutti ha compromesso il futuro della città: gli anni 70-80, gli anni della speculazione edilizia selvaggia, dell’urbanistica piegata agli interessi privati, della totale assenza di governo del territorio.

È lì che si consuma il peccato originale: mentre altrove si costruivano piani regolatori moderni, città a misura d’uomo, servizi, collegamenti, Reggio produsse mostri di cemento, quartieri nati senza logica, case infilate una sull’altra come se il territorio fosse un magazzino vuoto da riempire.

Non fu un incidente.

Fu una stagione precisa, con responsabilità precise, che ancora oggi paga la città intera.

Furono gli anni trionfo del “costruire comunque”, del “costruire ovunque”, del “costruire subito”. Complice un obsoleto strumento urbanistico e necessità di espansione per emigrazione interna ed abbandono dei centri rurali.

Nessuna visione territoriale.

Solo l’edificazione come motore economico, spesso tollerata o perfino incentivata da istituzioni incapaci o complici.

Mentre si costruivano “quartieri” che erano in realtà case ammucchiate, mentre nascevano finti villaggi turistici trasformati in seconde case abbandonate dieci mesi all’anno, mentre i terreni agricoli venivano bruciati per diventare “lottizzazioni”, la città perdeva per sempre la possibilità di crescere in modo armonico. La rendita immobiliare mangiò sviluppo, futuro e bellezza. E oggi ne vediamo le macerie, non solo fisiche ma sociali.

Quella stagione edilizia drogata portò liquidità immediata, lavoro temporaneo, ricchezza effimera. Ma lasciò in eredità:

• quartieri senza parcheggi né servizi,

• strade nate già strette,

• case in zone inadatte,

• un lungomare deturpato

• interi rioni senza scuole, parchi, piazze, luoghi pubblici,

• una periferia caotica e una città disintegrata.

Peggio ancora: scompare l’idea stessa di città.

Reggio divenne una somma di case, non una comunità costruita su un disegno urbano.

A Reggio Calabria l’urbanistica ha assunto una funzione opposta a quella per cui esiste: invece di programmare lo sviluppo, lo blocca. Invece di favorire investimenti, li scoraggia. Invece di semplificare, complica.

Oggi la medicina è una purga, zone vincolate senza criterio, le incoerenze nei piani attuativi, l’assenza di una visione per la città metropolitana trasformano la macchina urbanistica in un freno permanente allo sviluppo economico.

È la paralisi come metodo di governo.

L’Università dovrebbe essere la locomotiva dello sviluppo. A Reggio, invece, è diventata lo specchio fedele del suo territorio: lenta, frammentata, chiusa in sé stessa.

I corsi sono spesso troppo teorici e distanti dal mercato del lavoro, i progetti infrastrutturali si trasformano in cattedrali da abbattere più che in investimenti da valorizzare. Invece di trattenere talenti, li espelle.

Invece di guidare la trasformazione economica, la subisce.

E così il circolo vizioso si chiude: non c’è lavoro, i giovani partono; i giovani partono, l’economia si spegne; l’economia si spegne, gli amministratori diventano ancora più difensivi. Un meccanismo perfetto, ma al contrario.

Il declino economico non è mai una fatalità.

È sempre figlio di scelte, di omissioni, di incapacità.

Reggio Calabria non è povera: è impoverita.

Non è priva di risorse: è priva di chi le sappia valorizzare.

Non è destinata al fallimento: è lasciata nelle mani di chi pensa in termini di sopravvivenza, non di futuro.

E finché costiera, montagna, università, cultura, lavoro e urbanistica resteranno dentro questo limbo, la qualità della vita non potrà che peggiorare.

Non è questione di Nord o di Sud.

È questione di responsabilità.

E, prima o poi, qualcuno dovrà assumersela.

Reggio Calabria non è semplicemente “ultima nelle classifiche della qualità della vita”: è l’espressione concreta di un decadimento culturale, economico e politico che si autoalimenta. Non parliamo di emergenze improvvise, ma di un degrado radicato, generato da tre fattori principali: povertà intellettuale, povertà imprenditoriale e una gestione amministrativa senza spina dorsale.

Il sottosviluppo di Reggio Calabria è il frutto di decenni di abbandono del governo del territorio, di geografia complessa e di politiche nazionali che hanno progressivamente rinunciato al sostegno occupazionale. La città e la provincia pagano oggi il prezzo di scelte storiche e strutturali che hanno favorito la stagnazione economica, sociale e infrastrutturale.

Negli ultimi decenni, l’Europa ha offerto strumenti concreti per lo sviluppo regionale: fondi strutturali, progetti di coesione e programmi di innovazione. 

Reggio Calabria non li ha mai sfruttati appienoI progetti europei sono stati interpretati come opportunità marginali, non come strumenti di trasformazione del territorio. La città ha privilegiato interventi simbolici, eventi temporanei o opere “di facciata”, senza collegarli a una strategia complessiva di sviluppo imprenditoriale e sociale. Una storia che si ripete dal Decreto Reggio con opere mai avviate come il progetto Portmos per l'utilizzo diportistico del porto e della costauna montagna di risorse che non hanno mai cambiato il destino e invece che sempre hanno lasciato relitti ed incomplete a peggiorare il disegno e l'utilizzo dei servizi pubblici. POR CONV FESR Calabria, PON Città Metropolitane, PSC Regione Calabria, PN FESR FSE+ Calabria tutto inutile ai fini dello sviluppo ma buono solo per vivacchiare e distribuite risorse per sopravvivere.

Ogni anno, le stesse discussioni sulle opere necessarie rimbalzano senza produrre risultati concreti: la pianificazione resta sulla carta, il territorio continua a essere marginale.

Chi resta lotta ogni giorno tra rassegnazione e impotenza, mentre chi governa fotografa tutto senza cambiare nulla e ancor peggio ostacola le l'iniziativa che vengono proposte da chi non accetta questa inerzia. C'è chi conta le ore ed i minuti valorizzando il significato del tempo che scorre,  e chi amministra aspetta glaciale la scadenza del mandato costruendo dossier farlocchi

Ed il sole ed il mare i tramonti  da soli non dissetano una città intera che deve procurarsi da bere e da mangiare e che, senza lavoro dignitoso é una cittá senza speranza di vita.

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