Politica

Confcommercio e le Visioni che dividono: Quando la Partecipazione è un Racconto e non un Metodo

Comitati, categorie e associazioni producono “visioni” per il futuro di Reggio, ma più che costruire sviluppo cercano di posizionarsi dentro una narrazione pubblica fatta di partecipazione proclamata e decisioni prese altrove.

di Francesco Nicolò - 22 novembre 2025 16:23

A Reggio va in scena una nuova competizione silenziosa: non quella dei progetti, ma quella delle visioni. Confesercenti presenta la propria “Visione Reggio 2030”, i comitati di quartiere rilanciano con percorsi partecipativi, le associazioni rivendicano il loro spazio. In apparenza, è un proliferare di idee. In realtà, è un sintomo chiaro: ognuno costruisce la propria visione perché nessuno percepisce l’esistenza di una visione pubblica capace di unire.

La politica nel suo massimo rappresentate, nel frattempo, parla di “condivisione”, “ascolto”, “partecipazione attiva”. Ma è una partecipazione annunciata, non praticata. Si dice che il processo sia aperto, inclusivo, trasparente; che la città sia coinvolta nelle scelte strategiche, che la costruzione del futuro sia un percorso collettivo. Dimostrazione plastica è il muro di gomma istituzionale difronte la richiesta di regolamentazione dei Comitati di Quartiere da oltre 4 anni.

Poi però le porte si chiudono, gli attori vengono selezionati, e al tavolo arrivano solo i soggetti più accomodanti. In questo vuoto tra la retorica dell’ascolto e la realtà della decisione, si infilano tutte le “visioni parallele”. Non sono piani urbanistici, non sono programmi operativi, e non hanno alcun riconoscimento istituzionale. Ma servono a qualcos’altro: a posizionarsi.

Confesercenti, con un documento strutturato come un piano, si accredita come “regista economico” del territorio. I comitati, parlando di partecipazione “vera”, rivendicano il primato civico sul quartiere. Altri gruppi reclamano il proprio ruolo sociale, culturale, professionale. Tutti parlano di “condivisione”, ma lo fanno per occupare un frammento di centralità che l’amministrazione non ha mai redistribuito davvero.

La moltiplicazione di visioni non è un segno di ricchezza democratica. È il riflesso della debolezza con cui l’autorità pubblica governa la pianificazione urbana e sociale.

Quando il Comune non aggiorna gli strumenti urbanistici, quando non c’è un Masterplan operativo, quando il Piano del Commercio resta privo di un dibattito aperto, quando i cittadini non hanno una sede per proporre e la loro visione,  la città si frammenta in soggetti che tentano di surrogare il ruolo istituzionale con documenti, proposte, incontri, tour e tavoli.

Ma la verità è che nessuna di queste visioni può incidere davvero, proprio perché non nasce dentro un processo riconosciuto. Siamo in un paradosso: tutti parlano di partecipazione, ma nessuno partecipa davvero alle scelte. La politica convoca quando vuole e chi vuole, le associazioni propongono, ma non decidono, i comitati ascoltano il territorio, ma non hanno strumenti per trasformare le richieste in scelte operative. Tutti dialogano, ma ognuno nella propria stanza.

Non c’è una visione comune: ci sono tante visioni private in cerca di riconoscimento pubblico. Alla fine, il rischio è evidente: una città dove la partecipazione è una parola di moda, non una pratica. Dove le visioni diventano più un manifesto elettorale che un metodo condiviso e chi vuole essere protagonista prepara documenti, mentre chi dovrebbe decidere preferisce platee controllate e discussioni filtrate.

Finché la condivisione resterà un esercizio di comunicazione e non un processo reale, Reggio continuerà a produrre visioni su visioni, ognuna più isolata dell’altra, ee la città, invece di crescere attraverso il confronto, continuerà a moltiplicare le sue solitudini. 

Accreditare la partecipazione non significa convocare gente, né fare incontri simbolici, né aprire un form online. Accreditare la partecipazione significa dare valore, riconoscimento e potere a quel processo e  questo può avvenire solo attraverso metodi, regole, tempi certi e ruoli chiari in un un quadro istituzionale chiaro.

La partecipazione è credibile solo se esiste un atto ufficiale che dice: come si partecipa,  chi partecipa, a cosa serve la partecipazione,  cosa succede alle proposte raccolte.

Un’amministrazione che vuole accreditare la partecipazione deve produrre: un Regolamento della Partecipazione, una delibera che istituisce un percorso, una cabina di regia pubblica, trasparente, con soggetti selezionati con criteri oggettivi, non politici. 

Se parlo esito è esattamente ciò in cui si è trasformata  oggi la partecipazione. Non uno strumento ma una condizione ontologica. Un fatto quasi filosofico e profondamente politico.

La svolta è collegare la partecipazione agli strumenti di pianificazione, è qui che tutto si gioca.

La partecipazione si accredita quando:  entra nel PSC, incide nel Piano del Commercio, definisce quote del Masterplan, è integrata nel Documento Unico di Programmazione (DUP).

Se la partecipazione non tocca questi atti, rimane un esercizio estetico.

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