Israele: una questione spirituale prima che politica
Tra profezie, testi sacri, una guerra di fede che non potrà mai finire senza stati laici
di Francesco Nicolò - 07 settembre 2025 08:27
Si intensifica il pressing mediatico rappresentato da un vasto fronte, d'informazione e movimenti civici e politico che accusa, con evidente sdegno, lo stato Israeliano di genocidio, massacri di bambini, deportazioni.
Sembra di assistere al paradosso di ciò che questo popolo ha subito nel corso della sua esistenza.
Come consueto, l'interpretazione degli eventi e della storia, ha da sempre gli occhi e la ragione di chi la racconta. Da una parte la lunga storia di un popolo in cerca della riconciliazione con Dio, una terra promessa. Dall'altra una popolo, una regione geografica una religione che nom accettano la presenza israeliana nei territori. Una storia che doveva essere risolta alla fine del secondo conflitto con la formazione di due aree mai formate, seguita dalla una campagna di colonizzazione che gli ebrei hanno condotto tra acquisti di terre e migrazioni di massa e spopolamento degli insediamenti arabo-palestinesi. Una terra due popoli che di fatto impediscono la creazione di due aree.
Queste righe non sono una presa di posizione a favore o contro una delle parti ma rappresentano una chiave di lettura diversa rispetto alla indignazione collettiva per l'aggressività di questa guerra . Una lettura sulla questione "Gaza" che nasce dall'osservazione e razionalizzazione del fatto che da una parte Israele nonostante la superiorità militare continua a bombardare luoghi distrutti con una intensità mai vista, dall'altra i civili rimangono arroccati ad una realtà quasi distrutta, ostaggi israeliani di Hamas e popolo palestinese trattati come scudi umani costretti a rimanere in un territorio affamato ed ormai in macerie.
Una lettura che condanna la guerra e le atrocità sui civili di ogni età, ma che tuttavia attraverso riferimenti e fonti storiche prova a rendere ed più razionale che emotivo un conflitto che difficilmente potrà fermarsi.
Analisi Controtendenza
Spesso si parla di Israele solo in termini geopolitici o militari, come se fosse un Paese qualunque travolto da tensioni regionali. Ma Israele non può essere compreso se non si guarda oltre la cronaca. La “questione ebraica” è innanzitutto spirituale: nasce da un rapporto millenario fra un popolo e Dio, che si riflette tanto nella tradizione ebraica quanto in quella cristiana.
Un conflitto eterno che determina uno spartiacque tra fede e ragione. Così come il credo religioso dei cattolici la cui alleanza con Dio é nella resurrezione, il popolo ebraico ha la sua alleanza con Dio che é l'essenza della sua fede.
La prospettiva ebraica: il popolo dell’Alleanza e la Terra promessa
Per comprendere questa guerra é necessario ripercorrere la storia religiosa. Per l’ebraismo, Israele non è una nazione nata nel Novecento: è il popolo dell’Alleanza, chiamato da Dio fin dai tempi di Abramo. La Torah, nei sui cinque libri, racconta la promessa divina: “Alla tua discendenza io darò questa terra” (Genesi 12,7). Israele, come risulta da fonti ha una missione: essere “luce per le nazioni” (Isaia 49,6). Non è un popolo come gli altri, ma un testimone della fedeltà di Dio. Questa identità è sopravvissuta a esili, persecuzioni e tentativi di annientamento, dalla distruzione del Tempio fino alla Shoah.
La Terra di Israele ha per gli ebrei un significato unico: non solo uno spazio geografico, ma un luogo sacro dove si intrecciano storia e promessa divina . Il ritorno del popolo ebraico alla propria terra, culminato nel 1948 con la nascita dello Stato d’Israele, è visto da molti come compimento profetico della promessa divina.
La prospettiva cristiana: radici e fraternità
Il cristianesimo riconosce Israele come la radice della propria fede. Gesù era ebreo, figlio di questo popolo e di questa promessa. Nel Nuovo Testamento, San Paolo scrive: “I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29). Per i cristiani, Israele rimane amato da Dio, nonostante il mistero del suo non riconoscere Gesù come Messia.
La Chiesa non sostituisce Israele, ma vi è innestata come un ramo in un ulivo antico. Il Concilio Vaticano II, con Nostra Aetate (1965), ha ribadito che gli ebrei sono “fratelli maggiori” e che ogni forma di antisemitismo è contraria al Vangelo.
Israele è un pensiero divisivo nell'opinione comune occidentale che malgrado le atrocità della guerra rimane non solo un alleato politico ma per i non laici è un segno spirituale, la cui esistenza ricorda ai cristiani la fedeltà di Dio alle promesse e la speranza escatologica che “tutto Israele sarà salvato” (Rm 11,26)
Prospettiva Israele, Islam e la dimensione spirituale del conflitto
Il conflitto con il gruppo di Hamas e altri gruppi islamisti non è puramente politico: ha radici religiose profonde. Per molte organizzazioni islamiste, Israele non rappresenta solo un vicino scomodo, ma un “nemico religioso”, perché è percepito come la realizzazione della promessa divina agli ebrei, contraria alle loro ideologie politiche-religiose.
Entrambe le religioni condividono la centralità della preghiera e dei testi sacri, ma differiscono nella narrazione su terra, promessa e alleanza. Per gli ebrei, la Terra promessa è segno della fedeltà di Dio; per alcuni islamisti radicali, la stessa terra è sacra ma in conflitto con la loro visione religiosa e politica. Gerusalemme, Hebron, Nablus e Gaza non sono solo punti su una mappa, ma luoghi di fede e memoria collettiva. Per i musulmani, la Moschea di al-Aqsa a Gerusalemme è il terzo luogo sacro dell’Islam; per i cristiani palestinesi, la terra custodisce i luoghi della nascita e della predicazione di Gesù.
Gli israeliani recitano tre preghiere al giorno rivolgendosi verso Gerusalemme, gli islamici pregano cinque volte al giorno rivolgendosi alla Mecca. Due società e due culture dove la presenza di Dio é impregnata nel quotidiano.
La sopravvivenza e il successo dello Stato d’Israele, dal punto di vista ebraico e cristiano, sono letti come la manifestazione della volontà di Dio. Questo fatto può rappresentare una sfida per alcune interpretazioni radicali dell’Islam: se Dio protegge Israele e realizza la promessa fatta agli ebrei, quindi si é manifestata la promessa dell'Alleanza, la legittimità di certe ideologie estremiste viene messa in discussione, così come la lettura che esse danno della storia e della fede.
La questione israelo-palestinese diventa così uno scontro di visioni del mondo e teologie, dove la sopravvivenza di Israele conferma la centralità della volontà divina nella storia umana.
Implicazioni spirituali per l’Islam e Ebraismo
Se Israele fosse percepito come riconosciuto da Dio, come destinatario della Terra promessa, ciò avrebbe un impatto potenzialmente profondo nella dimensione religiosa dell’Islam.
Alcune interpretazioni islamiste vedono la Terra palestinese come una terra sacra sotto protezione divina. Il riconoscimento della promessa a Israele potrebbe mettere in discussione la loro lettura della volontà di Dio.
La consapevolezza che Dio ha mantenuto la promessa agli ebrei potrebbe obbligare le comunità musulmane a confrontarsi con l’idea che la storia e la geografia sacra non siano subordinate a interpretazioni umane o politiche ovvero alla loro guida religiosa.
Oltre la ragione: La difesa dell’Alleanza
Nella tradizione ebraica, i governanti d’Israele (da Mosè a Davide, fino ai tempi moderni) sono chiamati a difendere il popolo e la Terra promessa. Netanyahu viene percepito dai suoi sostenitori come colui che difende l’Alleanza antica di Dio con Israele, contro chi nega il diritto all’esistenza dello Stato ebraico. Una figura divisiva ma provvidenziale anche per chi dentro Israele lo contestata. Alcuni lo vedono come uomo politico segnato da compromessi e potere, una figura imperfetta, ma guida necessaria nel momento di crisi quasi la figura del guardiano.
Israele e la scelta di non annientare Gaza
Perché Israele, pur avendone la forza militare, non invade Gaza in modo totale e definitivo? La risposta ha due livelli. Sul piano politico e strategico, un’occupazione completa produrrebbe enormi perdite civili, Hamas, che non è solo il nativo palestinese che rivendica la Gaza, si asserraglia tra le rovine e trattiene gli ostaggi israeliani. Sebbene Israele é una potenza militare preponderante , non possiede un esercito numeroso, non ha un consenso di volontari ma impone l'arruolamento. Un attacco simile rischierebbe di aprire un conflitto regionale incontrollabile.
Sul piano spirituale, questo limite assume un significato più profondo. Israele, nella storia biblica, è stato spesso chiamato a combattere e resistere, ma raramente a distruggere del tutto. La sua sopravvivenza non deve apparire come frutto esclusivo della potenza delle armi, bensì come segno della protezione divina. Israele davanti la spietata atrocità dell'offensiva assume la postura dell'aggredito, la sua determinazione come popolo eletto non gli consente di vedere, né di considerare le sofferenze degli altri popoli. Un popolo che vive nella tensione tra storia e promessa, sostenuto non solo dalla propria forza, ma dalla fedeltà di Dio.
In questa prospettiva, il non annientare Gaza non è solo scelta militare: è anche un richiamo al fatto che la pace e la vittoria definitiva non verranno dalle armi, ma dal compimento del disegno divino sulla storia.
Perché difendere la Palestina
Difendere la Palestina oggi non significa difendere Gaza e schierarsi contro Israele, ma affermare che nessuna pace è possibile senza giustizia. Un popolo privato della sua terra e della sua libertà non può restare silenzioso. Ma la pace arriverà solo quando ai palestinesi sarà riconosciuto ciò che è negato da decenni: la possibilità di vivere come popolo libero, accanto a Israele, con uguale dignità. Una improbabile quanto complessa condivisione di luoghi sacri e promesse divine nonché guide religiose, rendono impensabile ogni tentativo di conciliazione che solo una svolta laica potrà portare. Una lunga guerra di secessione alimentata da paesi islamici confinanti, nella quale due popoli dovranno accettare di condividere terre e fede o combattere per altri 100 anni e oltre, nessuna Flotilia potrà fermare scelte che toccano solo agli arabi israelo palestinesi.