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Spazio Barbaro: Quelli che sono tornati dal nord

di Nanni Barbaro - 18 ottobre 2024 05:36

Anni e anni fa erano diventati consueti molti personaggi che, essendo dovuti partire verso l’Artitalia (sic) per lavoro, nel giro di pochi mesi avevano cambiato accento nel modo di parlare (o almeno loro così credevano) e persino gusti, usi e personalità. I più diffusi erano quelli che erano partiti da Reggio verso Torino, a

Maggio, con il “Minchia” ed erano tornati a natale con il “Neh!” O quelli direzione Milano che erano partiti cu “stortazzu” ed erano tornati “pirla”.

Mitico fu uno di Archi che dopo un anno scarso di Piacenza torna a casa e domanda alla mamma: “ma il babbo come sta?”. E quella, sgomenta: “Figghiu, u Babbu muriu, avi cchiù i na sumana?” Ma come? – urla lui – muore il babbo una settimana fa e io non ho saputo nulla?

La povera mamma era sempre più sgomenta e frastornata nell’apprendere che la notizia del decesso di uno del rione, chiamato “u Babbu” (nel senso di “persona sprovveduta”) aveva potuto a tal punto sconvolgere il figlio. Tanto più che tra la loro famiglia e quella del Babbu non correva buon sangue da decenni.

L’equivoco fu chiarito solo quando il babbo, quello vero, rientrò a casa e il figlio potè salutarlo con evidente sollievo. Lo stesso avvenne per una mamma di Catona, che dopo aver sentito dire per ottanta volte di fila “Mica” al figlio, si era convinta che si fosse fidanzato con questa Mica e le volesse un gran bene, viste che la nominava continuamente anche se non era presente: “Mica vado…Mica ci penso …Mica te lo dico…Mica sono stanco….” Mica qua e Mica là, tanto che alla fine la povera donna, con gli occhi lucidi di commozione gli chiese: “Figghiu, e quando ce la fai conoscere questa benedetta figghiola?”

Quale figghiola? – chiedeva lui trasecolando “Sta Mica!” E Mica ci chiama Mica, la mia fidanzata? Gabriella si chiama. “E sta Mica chi nòmini sempri cu veni a gghièssiri?” ribatteva la mamma con evidente espressione di gelosia…Insomma, equivoci di questo genere ne capitavano a decine, soprattutto perché i genitori parlavano e capivano solo il dialetto.

Col passare del tempo, i genitori che partorirono figli che sarebbero emigrati parlavano già da tempo anche loro l’italiano, per cui l’acquisizione di nuovi stili di vita, più che nel linguaggio, tesero a trasferirsi nei comportamenti quotidiani. Alcuni decisamente inaccettabili come la prima colazione con la spremuta di arance e le fette biscottate, il pompelmo a metà mattinata e, orrore degli orrori, LA CENA ALLE SETTE DI SERA!!!

E il cappuccino con due cornetti? E il caffè macchiato a metà mattina? E l’aperitivo a mezzogiorno con due ettari di rustici su vassoio e mezzo litro di cocktail? E Il pranzo alle due del pomeriggio con sette portate, dolci, caffè, ammazzacaffè, ri-caffè per cercare di ammazzare l’ammazzacaffè che rischia di ammazzare sul serio?

Ma soprattutto la cena!!! Alle sette? Ma alle sette, dalle nostre parti, significa brioscia di due chili e quattro gusti più panna. E poi, ma molto poi, la cena: non prima delle nove e mezza/dieci e comprensiva di tutto, frittole e pasta al forno compresi.

Si passano notti allucinanti con enorme dispendio di bustine antireflusso ma è solo così che le nonne, le mamme e le zie dormono “abbastanza” soddisfatti di come hanno mangiato figli e nipoti.

Se mettessero i tassi di colesterolo e glicemia, al ritorno al Nord, in aeroporto, come tasse aggiuntive di trasporto, i meridionali viaggerebbero tutti in stiva.

Però ci sono anche le buone abitudini da annotare ed elogiare, soprattutto quando sono frutto di una eroica resistenza alle ricadute che si possono avere tornando in una città dove le regole sono un’antica leggenda che qualcuno del luogo ancora di tanto in tanto tramanda tra una risata e l’altra.

Il meridionale che è stato molto al Nord lo riconosci da tanti piccoli segni, che molti reggini spesso irridono o osservano con pena. Qualcuno con ammirazione ma fa di tutto per non farlo notare “sennò chissà la gente cosa pensa”.

Per esempio, mette la freccia quando gira. Quando parcheggia lo fa dentro le strisce e se non ci fossero pone la macchina parallela al marciapiede e poi scende per verificare che non ci sia intralcio alle vetture circolanti. Quando una macchina si ferma per consentirgli di attraversare la strada non fa la sfilata a passo da plantigrado acciaccato ma accelera il passo per consentire al gentile signore di riprendere la marcia senza incazzarsi.

Quando esce dal bar, supera la soglia e si mette ai bordi dell’uscio, se deve chiacchierare. Non si ferma in mezzo per ostruire il passo a chi vorrebbe uscire e deve chiedere persino “permesso” e ricevere in cambio uno sguardo da mafiosetto che significa “cu cazzu si? Passa, s’a passari!”.

Lo stesso dicasi per negozi, chiese, uffici, ospedali, caserme ecc.. Quando entra al bar saluta e quando ha pagato ringrazia e risaluta. Il “grazie” al banconista è un obbligo morale imprescindibile. Idem per commesse, impiegati, addetti vari ecc.

Quando transita sul Lungomare con la famiglia bada che la stessa non si disponga come le frecce tricolori ma sia accostata e magari in fila indiana per non intralciare il passo di chi viene dalla direzione opposta. Se è un impiegato che ha avuto il trasferimento, in genere, oltre ai mobili e alle suppellettili, si porta dietro pure la cortesia verso i clienti, il senso del servizio, la puntualità e l’attenzione. Mica sono tutti babbi quelli che tornano dal Nord, neh!

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