Attualità

Papa Francesco: il Vangelo senza sfarzo

Il pastore che cammina scalzo tra la polvere dei popoli

di Vincenzo Maria Romeo - Pisichiatra Psicoterapeuta- - 21 aprile 2025 14:03

C’è un modo di essere Chiesa che ha camminato per secoli su marmi e incensi, con la voce del dogma e il passo solenne della tradizione. E c’è un modo di essere Chiesa che scende dalla cattedra, si inginocchia accanto all’uomo ferito, lo guarda negli occhi e sussurra una parola che non giudica, ma consola. Papa Francesco ha scelto il secondo. Non come gesto di rottura, ma come ritorno all’origine: al Cristo che tocca i lebbrosi, che parla in parabole comprensibili ai contadini, che piange per l’amico morto.

In un tempo disilluso, stanco della parola sacra perché l’ha sentita troppe volte senza mai vederla incarnata, Papa Francesco è riuscito in un’impresa difficilissima: ha reso il messaggio della Chiesa nuovamente accessibile senza mai banalizzarlo, profondo senza essere elitario, radicale senza essere ideologico. Lo ha fatto con gesti, con parole, ma soprattutto con la carne. Quella carne della gente, della storia, dei poveri, dei migranti, dei carcerati, dei sacerdoti stanchi, dei giovani confusi, degli anziani dimenticati. La Chiesa di Francesco è nuda come il Cristo sulla croce: non ha orpelli, ma ha occhi. E quegli occhi guardano non il peccato, ma la ferita.

L’origine di un linguaggio che guarisce: dal silenzio della teologia al suono della misericordia

La prima rivoluzione di Papa Francesco è stata linguistica. In un mondo saturo di parole, il pontefice argentino ha scelto parole essenziali, cariche di corpo. Ha parlato di “carezze”, “periferie”, “odore delle pecore”, “ospedale da campo”. Ha detto “Chi sono io per giudicare?”, rompendo secoli di verticalità con una semplice frase che ha riaperto a milioni di persone l’idea che Dio non è per i perfetti, ma per i vivi.

Papa Francesco ha rimosso il linguaggio liturgico dalla teca, l’ha fatto scendere per strada. Ha tolto la veste d’oro alla parola e l’ha vestita di lino, perché potesse essere compresa, accolta, abitata. Ha fatto del linguaggio una medicina: non qualcosa che impone, ma qualcosa che accompagna. In un mondo dove la comunicazione spesso crea distanza, Francesco ha costruito un linguaggio che accorcia, che abbraccia, che guarisce.

Un apostolato che non teme la polvere: la teologia dell’incontro

Francesco ha detto: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità”. In queste parole c’è tutta la sua visione ecclesiologica: una Chiesa in uscita, non più centrata su se stessa ma radicata nel mondo. Non il mondo ideale, ma quello reale: complesso, confuso, contraddittorio.

Il suo apostolato è un atto d’amore continuo verso chi non entra nelle cornici sacrali. Ha visitato carceri, lavato i piedi ai migranti, ha aperto la porta santa agli ammalati, ha pianto con le madri di Lampedusa. Ogni suo viaggio pastorale è un atto incarnato, una liturgia del corpo tra i corpi, che restituisce al cristianesimo la sua dimensione più profonda: l’essere cammino.

Papa Francesco non annuncia da lontano, ma cammina accanto. E in questo gesto semplice c’è la teologia dell’incontro: non ti dico chi sei, ma cammino con te perché tu possa scoprirlo da solo. Non ti impongo la verità, ma ti ascolto finché essa emerga da dentro di te.

Il potere della semplificazione: la radicalità del messaggio senza la rigidità della forma

Molti hanno criticato Francesco per il suo “semplificare”. Ma semplificare non è banalizzare. È riportare il messaggio alla sua essenza originaria. Francesco non svuota il Vangelo, lo disincaglia dalle incrostazioni storiche, dalle sovrastrutture morali, dalle formule liturgiche che avevano perso aderenza con la vita.

È il Vangelo senza retorica, quello che parla di pane e perdono, di mani e lacrime. È il cristianesimo che torna a essere racconto, parabola, gesto. È il linguaggio di Gesù, non quello della cattedra.

Francesco non destruttura per disprezzo della forma, ma per amore della sostanza. La sua riforma è antropologica prima che dottrinale: si parte dall’uomo, non dal dogma. Si parte dalla fame, dalla paura, dalla solitudine, non dalla norma. E in questo c’è un’intelligenza pastorale profonda: la verità non è una formula da accettare, ma una presenza da sperimentare.

I giovani e gli scartati: il Vangelo dell’inclusione, la Chiesa dell’abbraccio

Papa Francesco ha sempre avuto parole forti e dolci allo stesso tempo per i giovani. Li ha chiamati “poeti del cambiamento”, li ha invitati a “fare chiasso”, li ha esortati a “non lasciarsi rubare la speranza”. In un’epoca in cui la gioventù è spesso raccontata come instabile, individualista, priva di riferimenti, Francesco non li ha mai colpevolizzati, ma responsabilizzati attraverso la fiducia.

Il suo linguaggio con i giovani non è paternalistico. Non trasmette ordini, ma stimola coscienze. Il pontefice non ha paura di toccare le loro ferite: la precarietà, la solitudine digitale, l’ansia da prestazione, il senso di smarrimento. E quando parla di vocazione, non parla di rinuncia, ma di pienezza e desiderio. È un apostolato erotico, nel senso più spirituale del termine: un’educazione al desiderio profondo, non al sacrificio vuoto.

Allo stesso modo, il rapporto di Francesco con i “margini” è totale. Non è un gesto politico, è teologico. Ha detto che Dio abita nei poveri, nei migranti, nei carcerati, nei senzatetto. Li ha resi protagonisti della scena liturgica, ha chiesto perdono per le loro sofferenze, ha dato loro la parola. Non li ha mai trattati come destinatari della carità, ma come portatori di una rivelazione.

Per Francesco, l’escluso è l’icona del Cristo crocifisso oggi. Non va redento perché peccatore, ma accolto perché è già presenza di Dio.

La fragilità come verità: la fine della perfezione spirituale

Uno degli elementi più profondamente dirompenti dell’apostolato di Papa Francesco è il suo sguardo sulla fragilità. In un mondo che idolatra la performance, la velocità, la perfezione estetica e morale, Francesco ha detto: “Lasciatevi guardare dalla misericordia. Dio non si stanca mai di perdonare.”

Ha fatto della fragilità non un difetto da correggere, ma una condizione spirituale da abitare. Ha spostato lo sguardo dal comportamento al cuore, dalla norma alla relazione. E nel fare questo, ha liberato milioni di fedeli da un’immagine di Dio giudice, severo, distante. Ha restituito il volto di un Dio che entra nelle ferite, che non aspetta la purezza per amare.

Questo ha implicazioni psico-spirituali enormi. Perché legittima l’imperfezione come parte del cammino. Non si tratta di relativismo morale, come alcuni hanno criticato, ma di un ritorno al senso evangelico originario: Gesù non ha chiesto pentimento prima di amare, ha amato perché l’amore stesso guarisce.

La teologia della tenerezza: la carezza come forma di redenzione

Forse l’eredità più potente di Papa Francesco sarà questa: aver restituito al mondo la tenerezza come gesto teologico. In un tempo in cui tutto è polemica, strategia, contrapposizione, la sua predicazione è piena di immagini tattili: carezze, abbracci, lacrime.

La tenerezza, nella visione di Francesco, non è debolezza, ma forza. È l’energia che resiste alla logica dell’efficienza e dell’odio. È il luogo in cui l’umano e il divino si toccano senza paura. E questa è una rivoluzione silenziosa, ma immensa.

Non è solo un tratto caratteriale. È una visione spirituale profonda, in cui il gesto viene prima della dottrina, e l’incontro prima della legge. Papa Francesco è un teologo che predica col corpo. Che si lascia abbracciare, che sorride anche quando è stanco, che piange in silenzio per chi non ce l’ha fatta. Ed è in questo suo “esserci” vulnerabile che il mondo riconosce una forza autentica. Non è un papa che comanda. È un padre che accompagna.

Un’autorità che si fa domanda: crisi e rinnovamento del potere spirituale

In tempi di crisi della fiducia nelle istituzioni religiose, Francesco non ha evitato lo scandalo. Lo ha attraversato. Ha parlato con durezza della pedofilia nel clero, ha chiesto perdono per i silenzi colpevoli, ha riformato con decisione i meccanismi interni della Curia. Ma soprattutto, ha spostato il concetto di autorità: da potere a servizio, da governo a testimonianza.

La sua forza è la coerenza tra parola e vita. Non è solo un papa che “dice” cose nuove. È un uomo che incarna un modo nuovo di essere pontefice. È forse il primo papa postmoderno non per le idee, ma per il linguaggio. In un’epoca che diffida dell’autorità, Francesco non impone: domanda, propone, ascolta. E in questo suo stare umile, ritrova un’autorità autentica, quella che non si impone, ma si riceve per riconoscimento.

Non ha bisogno di alzare la voce. Gli basta essere. E chi lo guarda, sente qualcosa che gli appartiene.

La portata storica di un pontificato che ha aperto ferite per curarle

Papa Francesco ha inaugurato una stagione della Chiesa non fatta di restauri, ma di aperture dolorose. Ha preferito mostrare le crepe piuttosto che nasconderle sotto la doratura della forma. Ha riconosciuto gli abusi, la stanchezza, l’autoreferenzialità delle istituzioni ecclesiali. Ma non lo ha fatto con l’intento di demolire. Lo ha fatto per purificare.

È un pontificato che ha scelto di sanguinare: perché solo mostrando le ferite si può guarire. Non ha temuto lo scandalo, ha temuto l’ipocrisia. Non ha avuto paura delle domande difficili, ma del silenzio finto. In questo, Francesco ha restituito alla Chiesa una dignità non fondata sul prestigio, ma sulla verità. Non ha nascosto la fragilità, l’ha offerta.

Da Buenos Aires a Roma, da Lampedusa all’Iraq, il suo viaggio non è mai stato geografico: è stato esistenziale. Ha portato la Chiesa nei luoghi in cui l’umano soffre, cerca, cade. E in questo cammino, il Papa si è lasciato interrogare, commuovere, trasformare. Non è un pontefice che detta la via. È uno che la percorre insieme agli altri.

Francesco e il XXI secolo: restituire umanità al sacro, e sacralità all’umano

Viviamo in un tempo in cui l’umano è in crisi. Si smarrisce tra tecnologie senza volto, relazioni liquide, corpi standardizzati, emozioni privatizzate. Papa Francesco è apparso in questo tempo non per restaurare un passato, ma per dire che anche qui, oggi, Dio abita l’umano.

Ha restituito umanità al sacro: ha spogliato la liturgia dall’eccesso, ha fatto della Parola una voce quotidiana, ha aperto la Chiesa ai vissuti della gente reale. Ma ha anche restituito sacralità all’umano: ha detto che ogni vita è degna, ogni storia è abitata da Dio, ogni lacrima è vangelo.

Ha fatto questo con un gesto continuo di incarnazione. Non solo parlando, ma camminando, toccando, abbracciando. È tornato alla carne, e lì ha ritrovato il verbo. Francesco non ha teorizzato un nuovo umanesimo. Lo ha vissuto, come un padre, come un fratello, come un pellegrino.

La Chiesa come casa dell’incontro: né fortezza né museo

Nel suo discorso alla Curia nel 2014, Francesco disse che la Chiesa non deve diventare “una fortezza chiusa” né “un museo di memorie”. Questa frase racchiude il senso profondo della sua ecclesiologia: la Chiesa non è uno spazio di esclusione, ma un luogo di incontro.

Ha parlato spesso di Chiesa sinodale, dove si ascolta prima di parlare, dove il potere non è comando ma discernimento. Ha voluto una Chiesa che si muove non per paura, ma per amore. Non per difendersi, ma per servire.

Il suo pontificato è una chiamata continua a riconoscere nell’altro – chiunque esso sia – il volto di Dio. Migrante, ateo, omosessuale, divorziato, carcerato: Francesco non ha mai fatto classifiche, ha solo allargato la tavola.

E in questo gesto c’è il senso più profondo del Vangelo: non una religione dei puri, ma una comunità dei cercatori.

Conclusione: l’impronta viva di un uomo che ha voluto solo amare

Francesco lascerà un’impronta indelebile non perché ha scritto grandi encicliche – pur avendolo fatto – ma perché ha amato senza riserve. Il suo modo di essere papa è stato prima di tutto un modo di essere uomo.

Ha fatto della sua vulnerabilità un linguaggio, della sua stanchezza un’offerta, della sua umanità un segno della presenza di Dio nel tempo. Non ha mai parlato da sopra, ma da dentro. Non ha mai giudicato da fuori, ma ha ascoltato da vicino.

Francesco ha dato voce a chi non ne aveva. Ha dato spazio a chi era fuori scena. Ha ridato speranza a chi credeva che la fede fosse solo per i perfetti.

Il suo Vangelo non è nuovo. Ma è tornato a essere vivo.

E noi, oggi, possiamo dire di averlo visto: un uomo che ha voluto solo amare.




Categoria : Attualità