Scandalo kiss cam: la crepa non è nella coppia, è nello schermo
Lo stadio applaude, il maxi-schermo gode, l’algoritmo salva.
di Vincenzo Maria Romeo - Pisichiatra Psicoterapeuta- - 26 luglio 2025 16:08
Andy Byron, CEO di una compagnia dal nome, diciamo, astronomico viene intercettato dalla kiss cam durante un concerto dei Coldplay: lo stadio applaude, il maxi-schermo gode, l’algoritmo salva. Accanto a lui non c’è la compagna di sempre, ma l’orbita clandestina. Pochi scroll più in là, sui social atterra l’audio privato di un attore italiano tra i più apprezzati – Raul Bova– indirizzato a un’amante di trent’anni più giovane - dicono le cronache. Il messaggio, pensato per un orecchio solo, ne trova milioni. Due episodi, un’unica diagnosi: l’intimità non implode più nel silenzio, ma esplode in pubblico, e noi siamo lì con il pop-corn morale in mano.
Cartesio avrebbe fatto fatica: non è più “penso dunque sono”, ma “streamo dunque esisto”. L’accessibilità all’essere, quel sogno romantico di potersi raggiungere davvero, diventa accessibilità all’immagine dell’essere. Non entriamo nell’altro, accediamo al suo profilo. L’amore si riduce a una caption ben scritta, il tradimento a un loop di quindici secondi, il dolore a un commento con emoji calibrata. La kiss cam funziona come un inconscio di stadio: invece di parlare sul lettino, proietta in 16:9. L’audio virale è l’“oggetto voce” che Lacan descriveva: si stacca dal soggetto, gli sfugge di mano (o di gola), e vola nella timeline di chiunque abbia un pollice opponibile.
Intanto, c’è un convitato di pietra: la privacy. Non quella dei regolamenti europei che spuntano in fondo alle newsletter, ma quella sensazione concreta di poter sbagliare in un angolo buio senza trasformarsi in docufiction. La privacy è diventata un lusso, un vintage di cui parli con nostalgia: «ti ricordi quando si poteva sudare in pace?». Oggi la protezione dei dati è un banner da cliccare, non un confine da rispettare. La kiss cam non viola solo un rapporto, ma colonizza una zona d’ombra; l’audio leak non è solo pettegolezzo, è l’equivalente emotivo di una perquisizione senza mandato.
Eppure continuiamo a fingerci innocenti. Il paradosso dell’accesso totale è che accediamo a tutto tranne al desiderio dell’altro; restiamo sul pianerottolo, sbirciamo attraverso lo spioncino digitale e facciamo interpretazioni selvagge. Il paradosso della trasparenza obbligatoria è che più proclamiamo autenticità, più costruiamo scenografie; il CEO “colto in flagrante” non tradisce solo la partner, ma il copione prestabilito dell’evento pubblico, dove tutti devono essere innocui e fotogenici. L’attore imprigionato nel suo vocale perde la regia di sé: da protagonista della propria storia diventa fonte sonora di contenuti altrui, remixata e ricontestualizzata senza pietà.
C’è poi il paradosso del Super-Io godereccio: il vecchio Super-Io proibiva, quello digitale impone il godimento e la sua condivisione. «Devi essere felice, devi mostrarlo, devi farci partecipi. E se godi fuori campo, meriti la gogna». Così la folla social – vergine e voyeur – si erge a tribunale: noi che guardiamo, dunque siamo innocenti. Il like è l’assoluzione più pigra del mondo, il commento indignato la nuova frusta morale.
Dal punto di vista clinico, il paziente non è il singolo che scivola, ma la platea che gode nel vedere lo scivolone. Si chiama transfert digitale: proiettiamo sul CEO e sull’attore i nostri desideri inconfessabili, la nostra voglia di potere o di vendetta, e intanto qualsiasi critica a loro è un diversivo dal guardarci allo specchio. L’Io si scinde in tre: l’Io privato che manda un vocale, l’Io pubblico che lo nega, l’Io digitale che lo moltiplica. Tre Io in cerca d’autore, zero integrazione. Intanto, la figuraccia dell’altro è narcosi narcisistica: anestetizza per un attimo il nostro vuoto, la nostra paura di essere a nostra volta esposti.
Le relazioni? Sopravvivono, perché sono elastiche e masochiste. A rischiare l’estinzione è il diritto alla zona d’ombra, allo sbaglio che resta in salotto e non nel cloud. La vera infedeltà, oggi, è quella dell’intimità verso la logica dell’intrattenimento permanente: la consegniamo in pasto ad algoritmi famelici e ci stupiamo quando ci ritroviamo spolpati.
La terapia, provvisoria e un po’ cattiva, potrebbe cominciare da un gesto controintuitivo: il silenzio. Scoprire l’erotismo dell’audio non inviato, il brivido della storia non postata. Fare un’ecografia al desiderio prima di premere “invio”: se quel momento finisse su un maxi-schermo, lo vorrei ancora? Se sì, almeno è autentico; se no, forse è solo fame di attenzione. E magari mettere nero su bianco, nei contratti affettivi, una clausola sull’uso dei social in caso di crisi: meno promesse eterne, più protocolli operativi. Infine, rivalutare l’imbarazzo: non come vergogna tossica, ma come semaforo interno che dice “qui fermati, qui proteggeti”.
Il resto lo farà la buona, vecchia responsabilità: sapere che ogni like è un mattoncino nel muro di una sorveglianza intima travestita da intrattenimento; che ogni condivisione contribuisce a svuotare il concetto stesso di privacy fino a ridurlo a cookie policy. Confondiamo l’essere visti con l’essere compresi: ma l’occhio pubblico non capisce, consuma. E se tutto deve finire online, allora qualcuno dovrà pur aiutare a ricomporre i pezzi offline. È un lavoro ingrato, certo. Ma il mio analista interiore – e tutti i colleghi della salute mentale, ahimè – ringraziano.