Generazione Z

Corpi in vetrina, ferite fuori campo: la scorciatoia della sessualizzazione e l’assenza di cura

La storia di Asia e della tredicenne di Miss Italia

di Vincenzo Maria Romeo - Pisichiatra Psicoterapeuta- - 13 agosto 2025 15:59

Palermo, 7 luglio 2023. Asia Vitale ha 19 anni quando subisce una violenza di gruppo al Foro Italico. Da allora non c’è solo la ferita: c’è la post-violenza—processi, interviste, ondate d’odio. Nel luglio 2025 Asia rivendica pubblicamente la scelta di aprire un profilo su OnlyFans: “Chi ha problemi con questo mestiere cambi cultura. L’importante è il consenso”, dirà in un’intervista; altrove sottolinea anche il risvolto economico e l’idea di “rimettere mano alla propria vita”. La morale a gettone dei social si accende come un semaforo: o santa o colpevole, purché cliccabile.  

Dodici agosto 2025, Campania. A un evento collegato a Miss Italia sfila in passerella una tredicenne, in bikini e tacchi, come “Miss Mascotte”. Il video diventa virale, scoppia la polemica sulla sessualizzazione delle giovanissime: la patron Patrizia Mirigliani revoca l’incarico all’organizzatore regionale, mentre commentatori e giornali si dividono fra sdegno e minimizzazione (“è solo show”). La scena dice più di mille editorials: la linea fra gioco e mercato del corpo si è fatta così sottile che ci inciampano pure gli adulti.  

Due storie diverse, stesso specchio: da un lato una giovane donna che rivendica agency dopo un trauma; dall’altro una minorenne esibita in un format adulto. In mezzo—e qui sta il paradosso—un clima che propone la sessualizzazione del femminile come via rapida tanto per “risolvere” il dolore quanto per anticipare una maturità che non c’è. L’APA lo segnala da anni: l’iper-sessualizzazione precoce è associata a esiti psicologici peggiori (ansia, depressione, bassa autostima, distorsione dell’immagine corporea), e la auto-oggettivazione diventa abitudine mentale. Non è un’ipotesi moralista: è letteratura.  

1) Meccanismi: come nasce l’“effetto tunnel” che scambia libertà con esposizione

Online, l’effetto di disinibizione ci fa dire cosa dal vivo non diremmo; la deindividuazione ci consegna alla tribù; l’algoritmo fa il ragioniere dell’arousal e remunera ciò che trattiene l’occhio: indignazione, corpi, conflitto. Il risultato è un ambiente che normalizza il linguaggio aggressivo e premia la semplificazione sessuale—più è nitida l’immagine, meno serve pensare.

Qui torna utile la psicoanalisi, ma non per psichiatrizzare le scelte di chi ha subito. L’identificazione proiettiva (Klein) spiega bene una dinamica dei feed: parti scisse e intollerabili (vergogna, eccitazione, invidia) vengono proiettate sull’altro e poi indotte nell’altro attraverso comportamenti evocativi; il pubblico, a sua volta, risponde incarnando ciò che gli si appiccica addosso—la vittima diventa bersaglio ideale per il fango, o feticcio di catarsi per gli “spettatori morali”. È un meccanismo arcaico, tipico delle organizzazioni più immature dell’Io; Bion mostrò che solo un contenitore capace di tenere e trasformare queste proiezioni consente di tornare a pensare. I social, nella loro versione peggiore, funzionano da anti-contenitore: moltiplicano ciò che non sanno digerire.  

E l’oggettivazione? La teoria di Fredrickson & Roberts è un manuale di istruzioni della nostra epoca: quando il corpo femminile è trattato come oggetto da valutare, molte donne interiorizzano uno sguardo esterno permanente (self-objectification), con costi in termini di ansia, vergogna corporea, vigilanza attentiva su come si appare rispetto a cosa si sente. È un carburante perfetto per piattaforme che campano di immagini e comparazioni.  

Come leggere, senza moralismo, la scelta di Asia di aprire OnlyFans dopo il trauma? Primo: non è il nostro tribunale. La sua voce parla di consenso, riscatto, autonomia economica—elementi che contano. Secondo: sul piano clinico, in alcuni casi la sessualità esibita può funzionare come tentativo di padroneggiare (mastery) l’oggetto traumatico: “espongo io, alle mie condizioni”. Terzo: si può domandare (senza diagnosticare a distanza) se in certe traiettorie la dinamica non scivoli verso una coazione a ripetere socialmente ricompensata—dove la piattaforma, non la persona, decide quanto e come esibirsi. Il punto non è patologizzare Asia, è vedere il campo in cui ogni scelta è immediatamente comprata e rivenduta come contenuto.  

La vicenda della tredicenne a Miss Italia mostra l’altro estremo: quando sono gli adulti a collocare una minore in un contesto di sessualizzazione, non c’è agency da rivendicare—c’è responsabilità da assumere. E se scatta la retromarcia (revoca dell’incarico, comunicati), quel “oops” rivela una cosa sola: la banalità dell’automatismo con cui l’estetica del corpo erotizzato è diventata default, perfino dove dovrebbe valere il principio di precauzione.  

In sintesi: la sessualizzazione è diventata la scorciatoia esplicativa. Traumi? Sessualizza. Adolescenza? Sessualizza. Riscatto? Sessualizza. È una grammatica povera che, come tutte le scorciatoie, fa perdere la mappa.

2) Igiene, setting e responsabilità: cosa serve davvero per non lasciare i processi “a metà”

Prediche e codici etici servono poco senza architettura. La prima mossa è progettare frizione intenzionale: l’istante in cui l’azione si ferma e compare un pensiero. Sui comportamenti ad alto rischio (commenti a caldo, resharing compulsivo), micro-ritardi di 10–30 secondi con prompt di riformulazione, richiesta di fonte o di contesto storico. Non è censura, è funzione di rêverie applicata al design: trattieni l’affetto finché può diventare rappresentazione.

La seconda mossa è aumentare il costo della violenza. Non T&C in aramaico, ma un’accountability graduata: reputazione che si guadagna e si perde; visibilità ridotta per recidiva; un minimo di motivazione obbligatoria per accuse e invettive (“quale fatto contesti?”). Gli algoritmi possono togliere ossigeno alla serialità aggressiva senza imbavagliare la critica. È sanità pubblica dell’ecosistema, non perbenismo.

La terza mossa riguarda la moderazione: va trattata come cura, non come pulizia. Occorrono team formati su trauma, bias e de-escalation; trasparenza sulle decisioni (“che cosa è stato de-prioritizzato e perché”); canali di revisione accessibili. Una moderazione che spiega trasforma la sanzione in apprendimento—cioè svolge davvero la funzione contenitore che Bion descriveva.  

Ma l’architettura non basta. Servono istanze educative e specialistiche che si prendano carico dei processi trasformativi—perché senza presa in carico, tutto si ferma a metà. Nelle scuole: non l’ennesima lezione sul cyberbullismo, ma laboratori di restituzione narrativa dove chi è stato esposto possa rimettere in ordine la trama, nominare ciò che è accaduto, separare immagine e identità. Nei consultori e servizi territoriali: percorsi di presa in carico integrata del trauma digitale-mediato (valutazione clinica, supporto psicologico, orientamento legale, tutela della privacy e della reputazione online) con continuità temporale—mesi, non settimane. Nelle università e biblioteche: sportelli congiunti che offrano spazi sicuri per il racconto e la pianificazione pratica (dalla protezione dei contenuti alla gestione dell’hate speech).

In termini psicoanalitici, bisogna costruire spazi transizionali veri—con confini, tempi e funzioni chiare—capaci di tenere e trasformare il materiale grezzo. Chiamatelo holding, chiamatelo setting: il punto è evitare che la persona resti bloccata nel ruolo che il pubblico le appiccica addosso (vittima eterna, o al contrario “provocatrice” da giudicare). L’identificazione proiettiva del pubblico si disinnesca solo quando esiste un luogo terzo che riceve, metabolizza e restituisce significati: non un talk-show, non un thread, ma un contesto responsabile.  

Infine, c’è un’igiene del ritmo personale da reimparare: notifiche in batch, finestre di pubblicazione, diete informative cicliche. Non “detox” performativi, ma protezione della funzione riflessiva. Perché l’illusione più pericolosa è credere che il trauma sia “superato” quando l’hashtag smette di trendare. Il dolore non segue il calendario editoriale; ha bisogno di stanza, tempo, figure responsabili. Senza questa triade—spazi reali, durata sufficiente, adulti competenti—il dopo resta un eterno presente che ripete la scena in forme nuove: commenti, sguardi, allusioni. Proteggere non è tappare la bocca al mondo, è dare una cornice in cui chi ha subito possa riprendere il proprio nome e, più tardi, scegliere se e come raccontarsi. Solo così la rinascita non diventa una performance, ma una pienezza finalmente praticabile.

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